Sono le 22.39 del 9 ottobre 1963, esattamente 60 anni fa, la vita di 1910 persone ignare, tristemente inconsapevoli, fu cancellata con un colpo di spugna.
Un fronte di 260 milioni di metri cubi di roccia si staccò’ dal Monte Toc (” Pezzo” in dialetto Veneto, marcio in dialetto del fronte friulano: quando l’etimologia delle parole nella tradizione popolare fotografa la realtà, descrivendola e racchiudendola in un solo vocabolo), cadendo nell’invaso formato dalla diga artificiale Vajont ( torrente che va giù; ed anche qui l’ origine della sua parola è presagio), determinò tre onde che, tracimando dalla diga stessa, trascinarono con se boschi, case, fango, cancellando a valle Longarone paesi e frazioni, ed annientando a monte altri paesi, mettendo la parola fine alla vita di migliaia di creature.
La natura, la montagna la devi rispettare!
Devi rispettare le sue origini, le sue fragilità, entri nella sua casa e devi bussare chiedere “permesso” e solo se lei ti risponde “entra” , puoi varcare l’uscio; ma il potere, la sete di denaro e soprattutto l’arroganza umana ha violato questa regola, una regola di buona educazione di intelligenza di rispetto.
Il disastro del Vajont era un disastro annunciato, più volte Tina Merlin, allora giornalista per l’ Unità, aveva gridato fortissimo il pericolo, ma era una voce da soffocare, troppi interessi, troppi… complottista la chiameremo adesso.
Vennero ignorate perizie, carotaggi che evidenziavano la fragilità di quel territorio, la presenza di una frana di vaste dimensioni, il pericolo reale.
Venne chiusa in un cassetto la perizia di un professore patavino, che chiedeva di non superare il limite di sicurezza di altezza di 700 metri dell’acqua riversata nella diga, di NON FARLO perché poteva essere un disastro, perizia portata alla luce solo dopo la tragedia.
In primis la saggezza popolare aveva messo in guardia la ditta SADE, incaricata dell’opera chi abita quei posti lo sa, li conosce come una madre conosce il proprio figlio.
Non ci fu nulla da fare di fronte a tanta prepotenza umana, ed ancor oggi a leggere le testimonianze di chi è sopravvissuto a quell’olocausto, i racconti, sono sale su ferite aperte che non potranno chiudersi mai perché la consapevolezza di un disastro annunciato, dei segnali ignorati, è presente, forte, reale ed avrebbe dovuto essere monito, feroce insegnamento.
Quella diga non potrebbe neanche contenere tutte le lacrime che sono state versate, un Vajont di lacrime che sembra non aver insegnato niente…..allora vien da chiedersi cosa abbia un senso?
Ricordiamo ogni giorno quest’immane disastro è poco, forse niente ma solo così potremmo far vivere la memoria di chi credeva nella misericordia umana, solo così possiamo inchinarci alla natura e chiedergli scusa ogni volta che la violiamo pensandoci ad essa superiori.
Vi ho nel cuore e nella mente, una ferita nella mia terra che non guarirà mai.
Donatella